I CAPELLI DI VENEZIA

Un tuffo nel vuoto, tra tempeste violente e lande sconosciute, nella nebbia che rende tutto immobile e misterioso, e improvvisamente la fotografia muta di senso. Superato il confine tra la civilizzazione e il mare, nell’acqua che da secoli si scontra con la pietra d’Istria delle banchine lagunari, la curiosità cede il posto alla meraviglia. Le figure si confondono e Venezia scompare nelle linee sinuose che traghettano l’occhio attraverso turbini di suggestioni antiche e inaspettate. Allora tutto si carica di nuovo senso, si smette di precipitare nell’ignoto e si riconoscono i racconti che le forme intricate disegnano sulla tela. 

Storie contemporanee come quella del Sargassum muticum, un’alga orientale arrivata nella laguna negli anni ‘90 e diventata una delle ossessioni dei veneziani a causa della sua presenza costante sulle eliche delle imbarcazioni, sui remi dei gondolieri e su tutti i moli, si mescolano alle suggestioni dell’arte giapponese di Hokusai, alle incisioni di Dürer e le illustrazioni di Gustave Doré . La globalizzazione diventa evidente nella violenza con cui l’ecosistema è attaccato e i suoi delicati equilibri sono stravolti. Allo stesso modo, l’invasore diventa quasi un simbolo, gli viene dato un nome – i “capelli di Venezia” – e smette di far paura, diventando parte del paesaggio. Si sposta, quindi, dal piano geografico a quello storico intervenendo nella creazione di nuovi immaginari che l’occhio di De Luca è riuscito a cogliere e rappresentare in questa serie di immagini scattate durante quel viaggio sottomarino iniziato con un tuffo nel vuoto. 

Quasi come se il confine tra l’umano e il naturale si sposti direttamente sulla superficie dell’acqua, tra il visibile e l’ignoto, trasformando la discesa negli abissi del fotografo in una reinterpretazione del mondo magico di una città impossibile. 

Il naufragio è quindi una scelta, secondo quel peccato necessario che costrinse Ulisse a infinite peregrinazioni verso il suo fatale destino in nome della voglia di conoscenza e che muove l’arte fin dalle origini dell’espressione umana. Questa volta però il viaggio è possibile e il finale aperto, sarà l’osservatore a scegliere se rimanere impigliato, andare più a fondo o riemergere dal porto sepolto dove l’opera di Gianmaria De Luca l’ha condotto.

La nave si è incagliata in qualcosa di terribile. Nella nebbia non si distinguono le spirali nere che ci trattengono dalle creste delle onde. Vediamo la riva bruna sempre lì, immobile, bianca tra il cielo e il mare, confini marcati dallʼassenza di colore nella melma dei secoli che in lei si rispecchiano. Dallʼoriente al nostro fiume nuove figure si compongono come tentacoli spugnosi e ci sembra quasi di distinguere una figura. Ma unʼonda più forte ci assale, sʼinfrange sulla chiglia, la nave sʼinclina, vediamo le braccia del tempo accoglierci e subito allontanarsi. Di nuovo lʼinverso, agli antipodi del mondo, da unʼisola allʼaltra, ci sembra di cadere. Arde la prua impaziente, sʼimpenna, sobbalza, sembra che voglia staccarsi ma ricade dʼun tonfo. Soli con il nocchiere guardiamo alla luce ma gli occhi ricadono su scie di brace che come fiammelle contendono la vita alle onde, incerti se quel viaggio sia il frutto del peccato o il rivelarsi della vita. Maledetti dallʼassenza di vento siamo noi le vele. Oscilliamo da un lato allʼaltro. Frustati da un mare straniero in una terra desolata. Indietreggiamo, neanche i remi riescono a scalfire quellʼacqua infestata; il nocchiere ride. Risucchiati dalle onde tiranne scivoliamo nei gorghi della nebbia notturna. Tra un lampo e lʼindefinito, tra gli abissi e le stelle, nel cerchio di vita che violento ci affonda, ci scopriamo incapaci di restare fermi. Nulla è più stabile, la vista si scioglie tra un riflesso e un contorno. Il bianco è sfuocato, si allontana, e il mondo fluttua sotto i confini che lʼuomo ha dato al mare.

Testo di Sabato Angieri

Previous
Previous

Metamorfosi

Next
Next

La Grotta